Piacere a tutti (e non piacersi affatto)
Dall'uomo primitivo ai social network: come il bisogno di piacere ha (ri)programmato la nostra mente
Esistono persone che, pur di piacere, smettono di piacersi.
Per quanto ad alcuni possa sembrare una frase assurda, in realtà si tratta di una frase tristemente vera.
Il mondo social, in cui la felicità sembra essere misurata a like e cuoricini, ha contribuito pesantemente a rendere la nostra tensione verso l’apprezzamento altrui addirittura superiore rispetto a quanto già non fosse, con tutte le conseguenze che ne derivano.
Ma i social non solo l’unico agente che ha programmato la nostra mente in tal senso: la paura del giudizio e il bisogno di approvazione hanno radici molto lontane, che vanno dai nostri antenati e passano per i nostri genitori (e per l’educazione che più o meno consciamente ci hanno trasmesso).
Il “like” come meccanismo primitivo
Dal punto di vista evolutivo, il bisogno di approvazione non nasce certamente con l’avvento dei social.
Per i nostri antenati, i like - metaforicamente parlando - erano in realtà ancor più importanti che per la nostra generazione.
Essere apprezzati o disprezzati dal resto del gruppo, infatti, poteva voler comportare la conferma o l’esclusione da parte dei nostri simili. E l’esclusione da parte del gruppo equivaleva con altissime probabilità alla morte!
Il nostro bisogno inconscio di approvazione nasce proprio da qui, e da qui si è sviluppata la nostra necessità di monitorare costantemente i segnali di accettazione o di rifiuto da parte degli altri.
La paura di essere rifiutati è rimasta ben scritta nel nostro cervello: basti pensare che il rifiuto sociale è in grado di attivare nel nostro cervello le stesse aree che vengono attivate quando proviamo dolore fisico (Does Rejection Hurt? An FMRI Study of Social Exclusion - 2003). Per la nostra mente, in pratica, non esiste alcuna differenza.
In migliaia di anni di storia, l’ambiente circostante si è rivoluzionato più e più volte, ma il nostro hardware cerebrale è rimasto di fatto primitivo.
Mi raccomando, fai il bravo
Non è solo colpa degli uomini primitivi, eh.
Il rapporto che abbiamo con il giudizio altrui ha radici certamente evolutive, ma anche educative.
Molto spesso, sin da piccoli ci inculcano l’idea che dobbiamo comportarci bene per poter essere amati. Come se già di per sé non bastasse la paura ancestrale di restare tagliati fuori dalla tribù e di morire di stenti, insomma.
“Comportanti bene, così la mamma / il papà è contenta/o”, “guarda lui/lei che bravo/a”, “smettila di piangere… ti stanno guardando tutti”, “poi la gente cosa penserà?”. Ti suonano familiari queste frasi, non è vero?
Un bel mix di frasi in grado di tarpare le ali senza pietà e di installare una serie di paradigmi cognitivi che molto probabilmente accompagneranno il bambino per il resto della sua vita.
Cuoricini, cuoricini
Poi, ecco i social, dove - come dicevamo - la felicità per alcuni sembra misurarsi in like.
Ed ecco che il lavoro egregiamente svolto da antenati e genitori trova terreno fertile per alimentare ulteriormente una spasmodica ricerca dell’approvazione altrui.
I famigerati cuoricini infatti hanno il potere di innescare in noi reazioni biochimiche a base di dopamina che possono in pochissimo tempo creare una fortissima dipendenza. Non è un caso che funzionino proprio come le droghe: ne vogliamo sempre di più e, senza, andiamo in astinenza.
A questo si aggiunge il fatto che per nostra natura tendiamo ad attribuirci un valore e ad auto-giudicarci confrontandoci con gli altri, e i social come Instagram si basano esattamente su questo principio.
Io - preso dal mio bias del pavone - faccio del mio meglio per mostrare solo il lato bello della mia vita, così da farla sembrare straordinariamente perfetta agli occhi degli altri; tu - preso dal tuo bias del paragone sociale - fai del tuo meglio per paragonare la tua vita a una versione photoshoppata della vita altrui.
Come puoi immaginare, il risultato emotivo non è dei migliori.
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Piacere a tutti è un’illusione
Come liberarsi dalla costante necessità di piacere?
Brutta notizia: non possiamo riscrivere in un battito di ciglia il programma biologico che, di generazione in generazione, ci viene tramandato. Dunque, no, non possiamo eliminare i bias cognitivi e le euristiche che governano questo fenomeno.
Ma fortunatamente possiamo comunque fare qualcosa a riguardo: possiamo comprendere che piacere non è così piacevole come pensiamo che sia. E che anche se veramente riuscissimo nell’impresa di piacere a tutti, probabilmente ce ne pentiremmo molto presto.
Perché, in fondo, piacere a tutti significa essere amati da nessuno.
In un mondo in cui esistono persone che, pur di piacere agli altri, smettono addirittura di piacere a loro stessi, diventa allora fondamentale ritornare a dare importanza alle relazioni più profonde di un semplice scambio di like, più lunghe di un follow e più vere di un social.
Piaci a te stesso?
Prima ancora di chiederci se piacciamo agli altri, dovremmo partire proprio da quest’altra domanda: ci piacciamo?
Perché non possiamo veramente ambire a piacere agli altri - o ancor meglio a creare relazioni di valore - se prima non sappiamo stare con noi stessi.
Ricorda: piacersi è il presupposto per piacere in modo autentico. Impegnarsi forzatamente a piacere, al contrario, è il presupposto per non piacersi.
Sei d’accordo con questa riflessione? Fammelo sapere nei commenti!
Se ti è piaciuto il tema trattato in questa puntata di Brain Hacking, molto probabilmente potrebbe interessarti anche ciò di cui ho parlato in questo reel di Instagram. Ecco a te… 3 motivi neuroscientifici per cui la vita è meglio di quel che sembra! Buona visione.
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Io non ho mai desiderato piacere a tutti, ma almeno piacere alle persone che piacciono a me (poche, ma ci sono). Non piacere alle persone che mi piacciono mi provoca dolore: amici che ritengo importanti, ma non ricambiano il mio affetto con lo stesso slancio.
Sui social non mi pronuncio, ho smesso di frequentare quelli più gettonati e alcuni non li ho mai usati.
Il discorso circa l'educazione è delicato: penso alla figlia di mia cugina che, come la madre alla stessa età, è capricciosa e viziata al limite della molestia. Non è corretto in questo caso educarla e correggere i capricci?
Perché ogni suo capriccio viene soddisfatto, anzi, a volte si ritrova ad avere le cose ancora prima di chiederle: abiti firmati, una marea di giocattoli di tutti i tipi, coccolata e vezzeggiata da tutti. Poi penso alla situazione in cui si ritrova, essendo la sola bambina in una famiglia di adulti (tutti abbondantemente sopra i trenta) e quindi capisco i capricci e la frustrazione di non avere compagni di giochi.