La comodità atrofizza la mente
L'eccesso di comodità che caratterizza le nostre vite sta atrofizzando la nostra mente, ma l'etimologia di "problema" potrebbe salvarci la vita
Viviamo nell'epoca del comfort estremo: siamo un po’ tutti troppo comodi - citando l’autore americano Micheal Easter.
Viviamo in una società - perlomeno quella occidentale - in cui ogni minimo fastidio deve essere eliminato all’istante.
Hai fame? Food delivery in un click. Ti annoi? Subito su TikTok, Instagram o, perché no, Netflix. Devi scrivere un’email o preparare una relazione? Ecco sua maestà ChatGPT.
Non è difficile comprendere il motivo della situazione in cui ci ritroviamo oggi: il cervello umano, programmato per risparmiare energie e per farci sopravvivere, associa il comfort alla sicurezza e il disagio al pericolo.
Così, pur sapendo che la strada comoda non è sempre la strada giusta, preferiamo evitare a piè pari i problemi. E, guarda caso, proprio loro sono i protagonisti della newsletter di oggi: i problemi.
La società della comodità
Vivere nella società della comodità ha ricalibrato nel tempo il nostro rapporto con i problemi, totalmente.
In Italia, oggi, per fortuna è ormai rarissimo avere qualche problema inerente ai bisogni primari più fondamentali, come il fatto di avere un tetto sotto cui dormire, avere qualcosa da mettere sotto i denti o avere accesso all’acqua potabile (a differenza di circa 2 miliardi di persone che nel mondo non hanno questo privilegio, per intenderci).
Questo ci ha messo in una posizione di piacevolissimo comfort, fortunatamente. Ma è anche vero che lo stesso comfort che ci ha permesso di vivere una vita migliore, oggi pian piano ci sta rendendo la vita un po’ più difficile.
I motivi principali sono due.
Motivo 1: Abituazione al benessere
A causa di un processo che prende il nome di adattamento edonico, il comfort in cui viviamo - grazie al quale possiamo di fatto avere tutto a portata di mano, sempre e comunque - contribuisce a ingigantire ai nostri occhi anche i problemi più insignificanti.
Tecnicamente, questo meccanismo si chiama abituazione: nel momento in cui vieni esposto con una certa frequenza e una certa costanza a un determinato stimolo, la tua mente smette di vederlo.
Così funziona con i nostri privilegi: ce ne abituiamo, a tal punto da dimenticarli.
A prescindere dal proprio livello di benessere, tendiamo a darlo per scontato e a desiderare sempre di più, rischiando in questo modo di vivere nella più totale frustrazione, tipica di chi desidera sistematicamente ciò che non ha.
A tal proposito, se ti interessa approfondire il tema dell’adattamento edonico, puoi farlo guardando questo mio video:
Motivo 2: Dis-abituazione ai problemi
Oltre a una questione puramente connessa alla soddisfazione personale (intesa come la capacità di apprezzare ciò che abbiamo, senza darlo per scontato), la società della comodità in cui stiamo vivendo ha potenzialmente un’altra conseguenza estremamente impattante sulla nostre mente e sulla nostra vita.
Da un lato la comodità ci sta facendo abituare al benessere, con tutte le conseguenze che ne derivano. Dall’altro lato, parallelamente, ci sta facendo disabituare ai problemi.
E questo sì che è un bel problema, perché nel momento in cui la nostra mente smette di essere esposta a problemi da risolvere, perde di conseguenza l’abilità di gestirli e quindi di crescere e migliorarsi. In altre parole, si atrofizza.
Senza problemi, con c’è avanzamento. Sotto tutti i punti di vista.
Abbiamo bisogno di problemi
Siamo stati educati a vedere i problemi come nemici da combattere.
Ma guardiamo le cose da un’altra prospettiva: senza problemi, l’essere umano sarebbe probabilmente rimasto fermo all’età della pietra.
Pensiamo a una qualsiasi conquista personale o collettiva: ogni grande scoperta - così come ogni grande risultato - è nata da un problema da risolvere. I problemi, in quest’ottica, sono il più grande carburante per la crescita e l’evoluzione umana.
E noi, ignorando questo fatto, stiamo sbadatamente cercando di sbarazzarcene.
Etimologia: problema = progetto?
I problemi, dunque, sono essenziali.
E non è un caso che la parola problema sia una delle parole intrinsecamente più belle e affascinanti che ci siano, nonostante spesso venga quasi abolita in alcuni contesti.
A tal proposito, preso dalla curiosità, di recente ho fatto una veloce ricerca sull’etimologia della parola problema (su questo, devo ringraziare Igor Sibaldi, che in una sua intervista mi ha ispirato portandomi a scoprire il significato nascosto di questa parola).
Ebbene, l’equivalente in greco antico della parola problema è “progetto”.
La parola problema è infatti composta da pro (avanti) e blèma (gettare): il problema è ciò che si getta avanti, ciò che si mette avanti, ciò che si porta avanti. Un pro-getto.
E che cos’è un progetto, se non ciò che si ha intenzione di fare e di portare avanti?
L’etimologia ci insegna quindi un fatto estremamente interessante e curioso sulla mente e sul comportamento umano: senza problemi, non ci sono progetti. Perché in fondo - almeno da un punto di vista etimologico - sono esattamente la stessa cosa.
Affascinante, non è vero?
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Siamo tutti problem finder
Da un punto di vista neuroscientifico, etimologico e filosofico, ora sì che è il caso di dirlo: il problema è che non abbiamo problemi. Perché in fin dei conti si tratta di una verità apodittica: più siamo esposti a problemi, più opportunità abbiamo per elevarci.
Ora che siamo perfettamente consapevoli di quanto i problemi giochino un ruolo di fondamentale importanza nella nostra esistenza e nella nostra evoluzione personale, il primo passo da fare è trovarli.
Perché, come diceva il filosofo Karl Popper, “se non osiamo affrontare problemi che siano così difficili da rendere l’errore quasi inevitabile, non vi sarà allora sviluppo della conoscenza”.
Ed è proprio questo il punto di vista che dovremmo tutti quanti adottare più spesso, per renderci conto che ogni problema, dalla giusta prospettiva, può potenzialmente diventare un trampolino di lancio per ottenere risultati fuori dall’ordinario, per elevare i nostri standard, per uscire volontariamente dall’eccesso di comodità.
Da questa prospettiva, chi è interessato al proprio miglioramento personale e non si rassegna ad atrofizzare la sua mente nell’eccesso di comodità, prima di indossare i panni del problem solver (colui che risolve i problemi) dovrebbe vestire i panni del problem finder (colui che li trova, i problemi).
Dunque, qual è il problema che vogliamo risolvere?
Non ci resta che rispondere a questa domanda e - con la definizione etimologica di problema ben chiara in testa - muoverci per risolverlo.
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Che meraviglioso progetto! 🔥
Interessantissimo !!!!!!!!grazie Michele